giovedì 19 dicembre 2013

Natale, 18122013



Stamattina alla stazione c’era una ragazza con i capelli lunghi e neri. Portava una sciarpa dello stesso verde dei miei capelli, per questo ha attirato la mia attenzione. Aveva un viso sottile, ma bello e sembrava molto sicura di sé. Per me era impossibile non guardarla.
Solo dopo un po’ ho notato che il suo bagaglio consisteva in un trolley sgangherato che conteneva una grossa tastiera, che spuntava per metà, senza nessuna protezione.
In effetti aveva l’aria della musicista. O di chi conosce qualcuno che è un musicista.
Mi sono chiesta se la trasportasse in quella maniera così disastrata perché effettivamente era molto sicura di sé ed era certa che sarebbe riuscita a non rovinarla, o perché magari era solo una delle tante persone che hanno poca cura degli oggetti, anche di quelli più importanti.

 
Stamattina alla stazione c’era un ragazzo con un cappello viola con scritto BERLIN. All’inizio l’ho guardato di sfuggita, ma poi si è seduto a terra poco distante per me, ha tirato fuori dallo zaino un taccuino e ha iniziato a scrivere tantissimo.
Di tanto in tanto sollevava gli occhi dal foglio, si guardava attorno, forse fissava i passanti, forse me che lo fissavo, forse i cartelloni luminosi che segnalavano le Partenze; poi ricominciava a scrivere.
La sua scrittura era precisa e minuta: mi chiedevo se scrivesse così perché si sentiva osservato o in imbarazzo a scrivere in mezzo alla folla (vi è mai capitato di rimpicciolire la propria scrittura perché qualcuno osserva cosa stiamo scrivendo? A me sì) oppure perché era una di quelle persone precise e meticolose, a cui piace cogliere i dettagli, di quelle persone che, anche scrivendo di getto su un foglio senza righi, riescono a mantenere le lettere tutte piccole e allineate.
Portava con sé uno zaino, un borsone e una grossa lanterna grigia a vetri: sembrava essere una di quelle lanterne per esterni da candela che vendono all’Ikea.
Mi piaceva un sacco il modo in cui scriveva, anche se non so cosa stesse scrivendo, magari era solo una lista delle cose da fare, ma in poco tempo ha riempito due grosse pagine. Mi piaceva così tanto che anche quando è apparso il binario del mio treno non mi sono mossa di lì, fin quando anche lui non si è alzato ed è sparito dal mio campo visivo.

 
Stamattina alla stazione un uomo strano, quello che forse in tanti definirebbero un “barbone”, mi si è avvicinato; vivendo da quattro anni in una grande città ho ormai imparato a non dare confidenza a tutti, anche se mi risulta sempre estremamente difficile e imbarazzante: perché non dovrei dare il modo a qualcuno di parlare?
Sarà perché ero ricoperta di sciarpe e cappelli di lana, l’uomo mi ha chiesto preventivamente se fossi italiana ed io ho colto l’occasione per fare finta di non capire. Poi ha tirato da fuori la schiena un blocchetto di piccoli libricini stampati in bianco e nero e mi ha detto che stava vendendo delle copie di una raccolta di sue poesie. Ho balbettato un “no, no” e lui se ne è andato, ringraziandomi in italiano tra l’altro.
Mi sono sentita in colpa per avergli mentito e, anche se magari è solo uno spostato che cerca di raccattare soldi in giro come tanti altri, l’ho ammirato molto.

 
Oggi pomeriggio alla stazione, appena scesa dal treno, ho iniziato a girovagare, piuttosto di fretta, cercando con lo sguardo l’albero di natale alto e pieno di biglietti che mi aspettavo di trovare.


 
 
Ma lui non c’era.
Mi sono sentita molto triste.
Poi sono finita all’entrata del sottopassaggio e ho visto che avevano recintato una zona  e all’interno avevano fatto un piccolo albero, attorniato da globi luminosi, su un tappeto bianco di finta neve.
Ho scritto un cartello invitando chiunque volesse a lasciare lì i propri bei pensieri, ma mentre lo facevo un poliziotto mi ha rimproverato.
Spero non mi abbia visto mentre gli disubbidivo, oltrepassavo le transenne e poggiavo a terra vicino l’albero quel cartello: lo so che lui doveva mantenere l’ordine, ma io credo fermamente che trovare in una stazione un albero di natale in cui racchiudere i buoni propositi di migliaia di persone sia una cosa bella, ed importante.
Ho lasciato anche un biglietto per Marco, e poi sono andata via.
 
Oggi pomeriggio alla stazione, ho chiamato mamma per dirle che sarei ripartita a breve e lei ha colto l’occasione per comunicarmi che, parlando con il medico, ha scoperto che dovrei cambiare medicinali: ho cercato su internet il nome della nuova medicina e ho letto cose che non mi sono piaciute per niente. Mi sento stanca per questa situazione che va avanti da anni, benché non sia nulla di grave. Penso che potesse aspettare fino a stasera per dirmi queste cose dal vivo, ma penso anche che, come spesso accade anche a me, era spaventata dalla mia reazione e non è riuscita ad aspettare, preferendo sganciarmi la bomba brevemente e via telefono. A volte le cose mi sembrano troppo complicate, forse.
 
Oggi pomeriggio sul treno vicino a me si è seduta una famiglia: lei era bella, parlava al telefono con qualcuno del deficit dell’attenzione del proprio bambino, ma non sembrava triste, quanto infastidita, ma forse era solo un suo modo per esprimere ciò che sentiva; lui, invece, non penso si potesse considerare un bell’uomo, eppure mi ha attirato il modo e la dolcezza con cui si prendeva cura del figlio, iperattivo e capriccioso, con quanta tenerezza lo facesse giocare anche col proprio cellulare (che veniva utilizzato come una macchinina), senza sfociare nel menefreghismo e nel disturbo degli altri passeggeri. Il suo sorriso era leggermente incrinato, ma sincero.
 
Era già tramontato il sole quando il treno si è fermato troppo a lungo in una stazione, facendoci accumular parecchio ritardo; in tutto quel lasso di tempo di sosta ho parlato al telefono con un conoscente, per chiedergli velatamente consiglio, ma anche per capire cosa ne pensasse lui, di determinate situazioni che, anche se non dovrebbero, mi affliggono. Probabilmente uno dei miei più grandi problemi è che non riesco mai a parlare con le persone giuste: finisco sempre per tenermi tutto per me o a parlarne con una persona di cui mi fido ciecamente, sfogandomi, ma che può farci poco nella vicenda. Stavolta sono contenta perché mi sono sfogata, senza cadere negli eccessi, e ho capito il suo pensiero, comprendendo insieme anche il mio. Il problema di fondo è rimasto perché io non ho potere su questa vicenda, ma mi sento un po’ meglio.
 
Era già tramontato il sole quando ho telefonato ad una conoscente perché sapevo che stava passando un brutto momento, qualcosa di molto simile a vicissitudini da me sperimentate, e volevo sapere come stava, provare a tirarle un po’ su il morale. Ma non credo di esserci riuscita: mi è sembrata un po’ restia a raccontarmi gli avvenimenti e questo lo posso capire perché sono avvenuti da poco, poi abbiamo chiuso la telefonata piuttosto repentinamente senza che io potessi avere modo di fare niente altro per lei.
Vorrei essere in grado di poter fare di più per le persone che mi stanno a cuore; essere in grado di dimostrare loro che gli voglio bene e che gli sono vicina, ma mi sembra di non riuscirci mai, e forse per questo non riesco più ad avere un vero e proprio amico.
 
Era già tramontato il sole da un bel po’ quando, in mezzo al buio fuori dal finestrino, ho provato a cercare tracce del mio mare, trovando invece la luna piena. Mi piace viaggiare di sera: col buio il tempo mi pare che trascorra più velocemente, o forse semplicemente perché è la mia dimensione, mi sembra di perdere meno tempo. Quando viaggio in treno verso casa, però, preferisco che sia ancora giorno: ogni volta lo scintillare delle onde sotto la luce radente mi fa brillare gli occhi e mi sento come se prendessi un grosso respiro dopo mesi di apnea.
 
Oggi avrei voluto essere migliore.
Avrei voluto avere una faccia migliore, un sorriso migliore, un atteggiamento migliore.
Anche se avevo sonno, se ero triste, se ero pensierosa, avrei voluto rivolgermi agli sconosciuti con più gentilezza e garbo di quanto non sia riuscita, benché mi sforzassi per farlo.
Ma in fondo devo ancora comprende che non tutto può essere sotto il mio controllo e che, al contrario, altre cose dovrei riuscire a controllarle meglio.
 
 
Tra un’ora sarò, ancora una volta, in quella che sono abituata a chiamare casa.
E lì, solo lì, l’unico luogo al mondo in cui ogni debolezza mi è concessa.
Benché io mi trattenga dal concedermele così spesso.






ArHaL
Il tempo cambia il volto delle cose, anche dei ricordi.

2 commenti:

ShiningBlue ha detto...

...colpita, come sempre, dalle tue parole. casa. anche io sono a casa. ed adoro, nei viaggi, far ciò che hai descritto tu qui e che un mio ex chiamava people spotting. dici che avresti voluto riservare più gentilezza alle persone. ma già solo il fatto che le tue parole riportino ciò che di loro ti sei infilata nel cuore fa di te una persona migliore di quanto tu non creda. ti auguro di passare delle buone feste, a CASA. un abbraccio.,

Arhal ha detto...

Grazie mille, è sempre un piacere leggere le tue parole e, come sempre, sei gentilissima.
Auguro buone feste anche a te (=