venerdì 25 gennaio 2013

studentessa universitaria calabrese


"Sono due anni che sono andata via dalla mia città. Mia madre mi ha insegnato che studiare è importante, che la cultura è la base per affrontare la vita, per capire come gira il mondo, per poterlo girare a tua volta. È per questo che sono andata via, per cercare un’opportunità, per crescere.

Sono due anni che mi ronza in testa una domanda, forse banale, forse retorica. Perché ? Perché non posso crescere nella stessa città che mi ha concepita ? Perché la mia cultura devo formarla altrove?
Trent’anni fa quando avevi 19 anni eri un uomo compiuto, forse già padre di famiglia, con un lavoro rispettabile, una casa da mantenere, un mutuo da pagare.
Due anni fa avevo 19 anni ed ero, come adesso, poco più che una bambina. Ho raccolto le mie cose, ho messo il cuore in valigia e ho portato con me, a 700km di distanza, il profumo della mia città, della mia famiglia, delle mie radici. Cos’è un albero senza le sue radici?
Aveva ragione mia madre, ho imparato molte cose andando via. Ho imparato a guardare un micro mondo diverso dal mio, a viverlo, a diventarne parte integrante. Ho imparato la gioia del tornare a casa, la VERA casa. Ed ho imparato la tristezza del tornarci. È in fondo una questione di punti di vista ed io non avevo mai guardato dall’esterno. È stato un bene, perché mi ha permesso di capire quante e quali cose non vanno nella mia città natale, nella mia città adottiva, nel mio Paese.
Sono una studentessa fuori sede, di quelle che ogni mese riceve il pacco con le buonezze preparate dalla nonna, ma se due anni fa il cuore mi si sgretolava quando andavo via, adesso mi sembra di non riuscire a respirare quando torno.
Che madre è una città che ti fa nascere e poi ti costringe ad andare via? Ma soprattutto, che nazione è un’Italia che non ama in egual modo i suoi figli? Se fossi nata un po’ più su forse per me le cose sarebbero state diverse? Forse avrei potuto scegliere?
Sono una studentessa fuori sede politicamente confusa.
Non so bene cosa voglio, ma so molto bene cosa non voglio.
Non voglio tornare a Reggio e trovarla inondata da spazzatura, sporcizia e malumore.
Non voglio dover salutare mia madre, mio padre, sapendo che per mesi non potrò godere delle nostre discussioni a cena.
Non voglio andare a votare il “meno peggio”, non poter votare per una persona nella quale credo, nella quale rivedo i miei stessi ideali.
Non voglio il 40% di sconto sul biglietto di un treno, voglio la possibilità di votare in qualsiasi parte del mondo io mi trovi. Votare, non era, oltre che un dovere civico, anche un diritto?
Non sono l’unica a pensarla così.
Nel mio cuore ho la triste paura che un giorno, quando avrò terminato i miei studi, quando sarà il momento di cercare lavoro, non potrò più tornare a vivere nella mia Reggio. Farò le vacanze al mare, forse trascorrerò anche il Natale, ma non ci sarà più posto per me.
Ognuno dei ragazzi di 19 anni che Reggio fa andare via è un’opportunità che sta scegliendo di lasciare. Ognuno di quei ragazzi, ognuno di noi studenti in diaspora, altro non è che una risorsa, una possibilità.
Mi sarebbe piaciuto rimanere, ma vado via. Vado via, sono andata via, con tanta fragilità, forza e contraddizione, per cercare quel futuro che adesso sembra meno lontano, meno impossibile, meno irraggiungibile. Vado via con la speranza che un giorno potrò tornare, potrò anche io, nel mio piccolo, cambiare le cose. Vado via con il dolce desiderio di poter vedere i miei figli rimanere.
Arianna Papagiorgio"



Ho letto questa lettera aperta di una giovane per questo verso molto simile a me, lei di Reggio Calabria, io della provincia, e che come me, a distanza di qualche anno dal "trasferimento universitario" si ferma a pensare.
Mi sono sentita di condividerla per ovvi motivi, riflettendo che, personalmente, però non avrei scritto l'ultima frase, chiaramente, e anche che io provo una forte pulsione verso l'indipendenza: se avessi avuto la possibilità di studiare dalle mie parti in qualche modo avrei provato comunque a vivere da sola perchè non puoi vivere in casa con i tuoi quando nasci in Calabria. Femmina. Figlia unica.
Non hai i tuoi spazi, non puoi portare a casa il tuo ragazzo quando ti pare, non puoi tornare o andare senza avvisare. Mi accorgo che questi stessi pensieri potrebbero sembrare desideri infantili, ma in realtà non credo lo siano: è forse infantile desiderare l'indipendenza? La crescita? Perchè di questo si tratta: io per prima quando torno a casa mi trastullo nella "nullafacenza" data da un'adorata madre che si prodiga con tutto il cuore per te occupandosi della casa, della spesa, della cucina. Lei è la tua mamma, lo fa perchè ama farlo, e tu lo sai, e a distanza di tempo mi commuovo a pensarci, perchè sarà anche un gesto naturale, ma fin quando lo ricevi tutti i giorni non comprendi l'importanza di quei gesti che solo lei ti da.
E non comprendi neanche tante altre cose riguardanti ovviamente la presenza e la vicinanza di altri tuoi cari, papà, nonni, zii, cugini.
Quando vai via comprendi tutto.
Comprendi anche i problemi che, paradossalmente, da lontano ti sembrano ancora più grandi perchè tu non sei lì e non puoi fare nulla se non provare a dare conforto strappando un sorriso per telefono.
Per questo vivendo fuori casa si cresce: non è solo il fare tardi, l'avere i propri spazi, il saper fare la spesa, pulire e cucinare.
E' la comprensione di quanto quelle persone abbiano fatto e facciano per te, adesso più che mai visto che pagano due case con un misero stipendo italiano e solo loro sanno, probabilmente più di me, quanti soldi io chieda e quanti loro se ne tolgano per aiutarmi.
E' la comprensione dell'immensa distanza non-geografica che ti separa da quello che dovrebbe essere il tuo nucleo familiare e a cui tu dovresti, vorresti, potresti dare il tuo apporto per combattere i problemi, anche semplicemente "essendo lì in quel momento".
E' la comprensione della mancanza che provi delle cose belle e delle cose brutte di quel luogo, di quelle persone, della casa dove sei cresciuta.

Non credo tuttavia di essere un'ipocrita: quando sono lì se devo litigare con mia madre come facevo prima di partire lo faccio, se una sera voglio uscire lo faccio, mi comporto esattamente come mi comportavo "da adolescente".
Con la consapevolezza, però, che io cresco e che loro invecchiano, che il tempo finisce per tutti e che io, che ho visto "cosa c'è fuori" e vorrei tanto condividerlo, insegnarlo a loro.
Ma non posso. Perchè per quanto vorrei poter stare loro vicino, altrettanto mi devo allontanare da casa, perchè due mesi l'anno quando ci va bene frazionati sono pochi per capire e per dire.
Quindi tutto quello che mi viene spontaneo fare è stare con loro il più tempo possibile quando sono lì.

Le mie parole non sono di scusa verso una terra che mi ha visto crescere e che ho abbandonato, verso genitori che mi amano e che ho dovuto abbandonare, verso ricordi che ho vissuto e che sono rimasti abbandonati; le mie parole non sono di scusa verso una città che non mi ha mai dato praticamente nulla, a partire dalle persone, di cui si sono salvati al mio occhio solo pochi elementi, e a finire con le attività, passando per la civiltà e per l'educazione generica; non sono di scusa verso una regione che spreca e che sfama mafiosi, che seppellisce reperti archeologici, passato straordinario e bellezze paesaggistiche sotto l'immondizia, la dimenticanza, la trascuratezza; e non sono di scusa neanche verso l'ignoranza e l'ottusità che imperla le fronti di quasi la totalità della popolazione.

Le mie parole vogliono solo essere un "insegnamento", come quelle di Arianna, che non conosco, ma di cui apprezzo lo sforzo verbale, per tutti coloro che non provano ciò che stiamo provando io, lei e molti altri giovani, senza vittimismo e senza melodramma: non potrete mai e poi mai capire cosa vuoldire lasciare il posto che ti ha creato, poco più che maggiorenni, per andare altrove, per tanti tanti anni e per sempre.
Possono capire solo chi l'ha vissuto, chi lo sta vivendo, per motivi di studio, di lavoro, di scelte necessarie o inevitabili.
E' un dolore straziante rivolto a tutto ciò che ami e a tutto ciò che odi della tua terra, della tua famiglia, del tuo mondo d'infanzia e adolescenza. Un dolore costante e sempre presente, anche quando sei felice di ciò che hai ottenuto nel tuo "nuovo mondo". Un dolore che non ti lascerà mai perchè questi anni trascorsi lontani dalla tua famiglia non torneranno indietro, il problema che i tuoi hanno dovuto affrontare senza di te non tornerà indietro, la gioia delle piccole cose quotidine che forse solo adesso, a distanza, riesco a vedere non tornerà indietro.
Questo tempo finirà, loro invecchieranno sempre più, la tua città cambierà inevitabilmente.
E questo rimpianto, questo rimorso sarà con te, fortemente, ogni giorno a venire.

Così come è forte adesso quando ci pensi, come è forte ogni volta che prendi il treno, l'aereo, l'autobus per tornare a "studiare": niente riavvolgerà questo tempo trascorso lontano, come niente potrà mai asciugare le lacrime di tua madre e di tuo padre che piangono la tua mancanza, la tua partenza cercando di nascondertela come meglio possono, per non far star male anche te, "perchè non devi avere altri problemi oltre allo studio, figlia mia".

E' giusto desiderare di essere indipendenti e di costruirsi una vita da soli.
Ma ognuno dovrebbe avere la possibilità di fare ciò, almeno fin quando non sente che è il momento, non eccessivamente distante dalla terra e dalle persone che fino a quel momento ti hanno amato con tutto il loro cuore.
E che continueranno a farlo.
Solo che sarai quasi sempre troppo lontano per sentirlo.









ArHaL
Il tempo cambia il volto delle cose, anche dei ricordi.

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