venerdì 13 giugno 2014

169-170/365

Day 169&170 of 365.

Non ricordo più in quanti letti ho dormito.
Non ricordo più quanti treni ho preso per andare e venire.
Non ricordo più cosa vuoldire avere un posto che ti faccia sentire al riparo.

L'ho realizzato ieri, così, quasi all'improvviso.
Finora sorridevo, ultimamente mi sforzavo di sorridere, mi dicevo, come tutti quelli che hanno lasciato la propria casa natia "ho due case: quella dove sono cresciuta e quella che mi ha accolto dopo"; solo che non era così, era che di case ne ho cambiate più di una, e chissà quante ancora ne cambierò, era che poi c'è la casa di Istvan, e ogni volta qualcuno di gentile finisce per dirmi "fa come se fossi a casa tua".

MA IO NON SONO A CASA MIA.
Non ci sono, non ci sono mai, ormai da anni.
Non ho più di una casa: non ne ho più nessuna.

Ogni volta che torno in Calabria trovo il mio paese cambiato: i negozi chiusi, i volti invecchiati, le strade svuotate da quella che era la mia generazione.
E casa mia... Casa mia sempre, sempre bella, il mare, il cielo, la frutta, sempre, sempre belli.
Sempre.
Solo che non è questo ciò che posso chiamare casa.

Casa era quando tornavo da scuola e mamma mi cucinava la pasta anche se era stanchissima.
E lo fa, anche ora, perché mi vuole bene, ma leggo nei suoi occhi la stanchezza abissale di chi sta perdendo la fiducia in ciò in cui credeva di più.
E non è bello leggerla quando quella cosa sei tu.

Casa era quando mi sentivo sola e incompresa e passavo ore, giorni chiusa in camera mia a leggere, senza mangiare, senza dormire.
Ora ho imparato che non posso vivere per sempre nei libri se voglio avere una storia mia.

Casa era quando tutto andava storto e io mi concedevo di urlare e piangere, che per quanto ciò ferisse il mio orgoglio, c'erano soltanto le mura ad accogliere le mie nocche, o le porte del salotto a sbattere, o i miei genitori a dirmi "vabbè, ma adesso calmati".
Adesso quelle urla e quelle lacrime deve trattenerle sempre, più che posso, perché ogni mia debolezza distruggerebbe l'equilibrio precario in cui tutto si trova.

Questa non è più casa mia.
E non è casa mia la mia camera da studentessa a Firenze, una camera che prova ad accogliere una vita intera, ma non c'è niente da fare: è troppo stretta.
E casa non può essere neanche quella offertami, tanto dolcemente, dai genitori di Istvan perché non è lì che io posso essere ciò che sono fino in fondo.

E ogni mattina apro gli occhi nel buio e non ricordo dove sono, in quale letto sono, in quale casa abito, in quale città mi trovo.

Voglio una casa.
Da quando ho iniziato a irrobustire la mia coscienza, da quando mi sono macchiata di matita nera sugli occhi, da quando ho deciso che avrei dovuto essere più forte, mai mi sono concessa di pensare al fatto che, forse, mi sarebbe piaciuto anche a me essere romantica, avere qualcuno a cui dedicarmi, desiderare una casa mia.
Eppure, adesso che sto imparando faticosamente a mettere da parte il mio enorme orgoglio, è così: voglio una casa.
Un posto.
Delle mura, un tavolo, dei bicchieri.

Non mi basta più un momento, un abbraccio, delle pacche sulle spalle.
Delle persone a cui voglio bene, un fidanzato che, per quanto preziosi, per quanto si sforzino di farmi sentire al sicuro, a me non possono bastare.

Voglio delle pareti tra cui piangere, un soffitto sotto al quale essere felice.
Così, come sono.

E' questo ciò che vuoldire "casa", no?





ArHaL
Il tempo cambia il volto delle cose, anche dei ricordi.

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